Oh Sheet!

2013 – in progress

OH SHEET!

Carlotta Monteverde

Oh Sheet! nasce nel 2013: è la serie che affianca la produzione più conosciuta su tela e installativa di Alessandro Calizza e si compone di vecchie incisioni su cui l’artista interviene con acquerello e acrilico dando vita – nell’inconfondibile stile – a scenari sull’orlo dell’apocalisse. Le stampe, originali, ottocentesche, provengono principalmente da un portfolio di John Coney e raffigurano edifici – cattedrali soprattutto – in disfacimento, rovine.
Acqua, tentacoli viola, radici e arbusti, piante carnivore, nubi e cieli acidi, graffiti multicolori invadono, saccheggiano, conquistano e annichiliscono memorie della nostra identità culturale. Grazie alla matrice romantica, con la sua seduzione per l’antico e il pittoresco, alle tinte invitanti e seducenti, che mutua dalla pubblicità e dalla comunicazione, e ai codici fantastici della fiaba, Calizza racconta non solo «un sistema al collasso, qualcosa che non è riuscito a sopravvivere, la dichiarazione di un fallimento»¹ ma lo fa mascherandone le conseguenze proprio sotto la patina ammiccante: una sorta di normalità della fine. Significativi, a questo proposito, i titoli: Painball, The well’s secret, Something in the fog, Dio respira, It was a beautiful place, Liberaci dal male, Non è poi così grave, Then she came, ecc… confondono, minimizzano la situazione con giochi di parole e cortocircuiti tra testo e immagine.
Per quanto la produzione su carta, costante da circa cinque anni, si differenzi per una maggiore libertà dalle opere di grandi dimensioni – «molto più strutturate sia tecnicamente che concettualmente, mentre qui c’è un’espressione senza vincoli» – e sia parallela (ma non collegata) a cicli distanti nel tempo e per ricerca fra loro, ne attraversa tutte le fasi sviluppandone in embrione i procedimenti e facendone convivere spunti e passaggi. Da Snub e le sue avventure mutua l’aspetto irrazionale, inconscio, dell’approccio; dei lavori ad esso successivi – di cui il primo è Don’t let them catch us, 2013, con tinte piatte e predominanza dei blu, che man mano diventano gigantesche nature morte pietrificate – collauda e amplia i personaggi e condivide lo slittamento dall’analisi del rapporto tra sé e il sistema a quello tra l’individuo e l’esterno; dell’ultimo periodo infine, dove compaiono busti volti e frammenti di sculture greche e romane, anticipa l’appropriazione di immagini simbolo del nostro complesso di valori – come delle «sineddoche», una parte per il tutto – che modifica e degrada. Spiega Alessandro: «La pop art ha dei lati poco interessanti e altri incredibili, tra cui essere popolare nel senso alto del termine, creare un discorso immediatamente intellegibile. Per parlare del mio mondo impiego elementi che lo rappresentino nella sua radice più evidente, una statua classica o una cattedrale».
La velocità di comunicazione accennata, la necessità di lanciare un messaggio accessibile trasversalmente («Il mio lavoro non è concettuale: c’è tanto contenuto e ne potrei scrivere per pagine… però chi lo vede trova qualcosa di bello, ideale, che si sta sgretolando. E far riflettere su questo per me è un ottimo risultato») ricorda l’incedere di molta Street – non a caso Calizza si forma nel writing – da cui desume anche alcune prassi: dai poster della stessa Oh Sheet!, alla semplificazione di contorni e pattern, all’uso dello stencil e delle bombolette nei dipinti su tela, sfumati a carboncino. Rielaborate secondo un eclettismo che rivendica l’indifferenza verso il valore di tecniche e materiali, guidata dalla sola necessità di un dialogo efficace. 
Alessandro ha definito la serie «l’inizio di una storia che non è andata nella direzione giusta; una fotografia dal futuro»: le suggestioni sono quelle di realtà aumentata nell’assurdità dell’apparizione di strane creature e fenomeni, nella simulazione di un mondo proiettato a decenni di distanza, nella pervasività dell’effetto marketing. A conclusione del tragitto di Atene Brucia, tenutasi nella primavera 2017 presso il Museo dell’Arte Classica dell’Università degli Studi La Sapienza, Roma, la testa di una divinità, l’unica scultura presente tra numerosi quadri, era ricucita con la tecnica del kintsugi, cioè sigillando le fratture con l’oro. Cosa significa? Che siamo di fronte a una palese falsificazione: «Ho fiducia che tutto possa andare in buona direzione, il primo passo è rendersi conto che c’è qualcosa che non va, eludere un sistema che non funziona; oggi serve cura, riscoprire noi stessi e l’altro. E l’arte e la cultura sono le uniche in grado di riattivare le coscienze, non la politica, eliminando le barriere di spazio e tempo nella sua accessibilità».

1- Tutte le frasi tra virgolette sono tratte da una conversazione con Alessandro

OH SHEET!

Carlotta Monteverde

Oh Sheet! nasce nel 2013: è la serie che affianca la produzione più conosciuta su tela e installativa di Alessandro Calizza e si compone di vecchie incisioni su cui l’artista interviene con acquerello e acrilico dando vita – nell’inconfondibile stile – a scenari sull’orlo dell’apocalisse. Le stampe, originali, ottocentesche, provengono principalmente da un portfolio di John Coney e raffigurano edifici – cattedrali soprattutto – in disfacimento, rovine.
Acqua, tentacoli viola, radici e arbusti, piante carnivore, nubi e cieli acidi, graffiti multicolori invadono, saccheggiano, conquistano e annichiliscono memorie della nostra identità culturale. Grazie alla matrice romantica, con la sua seduzione per l’antico e il pittoresco, alle tinte invitanti e seducenti, che mutua dalla pubblicità e dalla comunicazione, e ai codici fantastici della fiaba, Calizza racconta non solo «un sistema al collasso, qualcosa che non è riuscito a sopravvivere, la dichiarazione di un fallimento»¹ ma lo fa mascherandone le conseguenze proprio sotto la patina ammiccante: una sorta di normalità della fine. Significativi, a questo proposito, i titoli: Painball, The well’s secret, Something in the fog, Dio respira, It was a beautiful place, Liberaci dal male, Non è poi così grave, Then she came, ecc… confondono, minimizzano la situazione con giochi di parole e cortocircuiti tra testo e immagine.
Per quanto la produzione su carta, costante da circa cinque anni, si differenzi per una maggiore libertà dalle opere di grandi dimensioni – «molto più strutturate sia tecnicamente che concettualmente, mentre qui c’è un’espressione senza vincoli» – e sia parallela (ma non collegata) a cicli distanti nel tempo e per ricerca fra loro, ne attraversa tutte le fasi sviluppandone in embrione i procedimenti e facendone convivere spunti e passaggi. Da Snub e le sue avventure mutua l’aspetto irrazionale, inconscio, dell’approccio; dei lavori ad esso successivi – di cui il primo è Don’t let them catch us, 2013, con tinte piatte e predominanza dei blu, che man mano diventano gigantesche nature morte pietrificate – collauda e amplia i personaggi e condivide lo slittamento dall’analisi del rapporto tra sé e il sistema a quello tra l’individuo e l’esterno; dell’ultimo periodo infine, dove compaiono busti volti e frammenti di sculture greche e romane, anticipa l’appropriazione di immagini simbolo del nostro complesso di valori – come delle «sineddoche», una parte per il tutto – che modifica e degrada. Spiega Alessandro: «La pop art ha dei lati poco interessanti e altri incredibili, tra cui essere popolare nel senso alto del termine, creare un discorso immediatamente intellegibile. Per parlare del mio mondo impiego elementi che lo rappresentino nella sua radice più evidente, una statua classica o una cattedrale».
La velocità di comunicazione accennata, la necessità di lanciare un messaggio accessibile trasversalmente («Il mio lavoro non è concettuale: c’è tanto contenuto e ne potrei scrivere per pagine… però chi lo vede trova qualcosa di bello, ideale, che si sta sgretolando. E far riflettere su questo per me è un ottimo risultato») ricorda l’incedere di molta Street – non a caso Calizza si forma nel writing – da cui desume anche alcune prassi: dai poster della stessa Oh Sheet!, alla semplificazione di contorni e pattern, all’uso dello stencil e delle bombolette nei dipinti su tela, sfumati a carboncino. Rielaborate secondo un eclettismo che rivendica l’indifferenza verso il valore di tecniche e materiali, guidata dalla sola necessità di un dialogo efficace. 
Alessandro ha definito la serie «l’inizio di una storia che non è andata nella direzione giusta; una fotografia dal futuro»: le suggestioni sono quelle di realtà aumentata nell’assurdità dell’apparizione di strane creature e fenomeni, nella simulazione di un mondo proiettato a decenni di distanza, nella pervasività dell’effetto marketing. A conclusione del tragitto di Atene Brucia, tenutasi nella primavera 2017 presso il Museo dell’Arte Classica dell’Università degli Studi La Sapienza, Roma, la testa di una divinità, l’unica scultura presente tra numerosi quadri, era ricucita con la tecnica del kintsugi, cioè sigillando le fratture con l’oro. Cosa significa? Che siamo di fronte a una palese falsificazione: «Ho fiducia che tutto possa andare in buona direzione, il primo passo è rendersi conto che c’è qualcosa che non va, eludere un sistema che non funziona; oggi serve cura, riscoprire noi stessi e l’altro. E l’arte e la cultura sono le uniche in grado di riattivare le coscienze, non la politica, eliminando le barriere di spazio e tempo nella sua accessibilità».

1- Tutte le frasi tra virgolette sono tratte da una conversazione con Alessandro