Steal Life
2013 – 2016
APOCALISSE DELL’UNIVERSO, TEOREMA DEL MULTI-VERSO
Valeria Arnaldi
La Natura morta come soggetto e strumento di riflessione. Come messaggio e come codice. La Storia dell’arte, indagata nei topoi della sua universalità, viene consacrata nel suo essere inevitabile confronto di un contemporaneo, che per distaccarsi realmente dal passato, deve penetrarlo e farlo proprio, fino a divorarlo forse. Consumando la moltitudine di stimoli e artisti nella solitudine dell’ispirazione creativa, per ricostruire il proprio linguaggio. E la coscienza del suo pubblico. Il “tipo” diventa dunque archetipo e le tele si fanno ring di combattimenti, tra epoche e sensibilità, che già si annunciano senza vincitori- nuovi linguaggi tornano sui passi di antiche metafore per prenderne mosse e distanze. Inizia così quella profanazione del prima che diventa in realtà omaggio al presente e piedistallo di un futuro in boccio.
In un contesto di sotterranea – e dirompente – rivoluzione, che sarà poi pop-esplosione, Alessandro Calizza avvia la sua ricerca dalla natura morta, come genere epocale e al contempo trasversale. La riflessione non è sulla vanitas, né sulla conquista di un’apparenza ostentata fino a farsi essenza, no. La riflessione è sui canoni di un’estetica riconosciuta che, proprio in quanto tale, deve essere sconfessata.
Il “dato” non è radice ma terra che germogliare un nuovo che, pur alimentandosi del contatto, può liberarsi di ogni sua influenza. La Natura marcisce perché il tempo l’ha consumata, fino a fare polvere della sua modernità. Il tarlo che rode è quello dell’ispirazione come dono che impone la scelta di essere chi mangia o chi è mangiato, comunque sempre in vizioso circolo costretto. E l’animale-mostro che occupa lo spazio è lombrico che si rigenera, più umile e infestante Fenice, ma anche serpente che confonde. E di nuovo, spettro dell’informe sulle forme vittorioso. Così la classicità laica, e prima ancora pagana, si confronta con quella religiosa, versando il sangue di entrambe. È nella ferita del confronto che il contemporaneo emerge con la forza del suo accettarsi e proclamarsi visionario.
Nel solido contesto di colonne spezzate e ceste di frutta putrescenti, dove la pietra si fa monumento di cenere, i “viventi” dell’artista si alimentano dell’infinito potenziale di uno spazio apparentemente vuoto che si rivela in realtà concretamente pieno in un illimitato multi-verso. Il mondo, per come lo conosciamo, è morto – ed ogni tela sia la sua lapide – per il semplice fatto che la vera rivolta è nel contestare la sua unicità di visione, percezione, proiezione. In quest’apocalisse di surreali forme, l’arte versa il sangue dei suoi colori cercando una nuova densità. Anche di intenti.
La conversione qui è nel titolo che evidenzia la “carne fresca” come contrasto alla carne morta che ritrae, invitando il visitatore a superare la superficialità dello sguardo per andare al di là. O meglio, nell’aldilà dell’artista. Il riflettore non è puntato sulla decadenza in corso, quello, sembra dire Calizza, è il teatro dato per assunto in una metamorfosi che uccide il bruco per consentire alla farfalla di volare. Le ombre crudeli dell’oggi saranno i padroni di domani. “Non resta molto tempo!”, avvertono le opere. Solo quello di una nuova eternità da costruire.
APOCALISSE DELL’UNIVERSO, TEOREMA DEL MULTI-VERSO
Valeria Arnaldi
La Natura morta come soggetto e strumento di riflessione. Come messaggio e come codice. La Storia dell’arte, indagata nei topoi della sua universalità, viene consacrata nel suo essere inevitabile confronto di un contemporaneo, che per distaccarsi realmente dal passato, deve penetrarlo e farlo proprio, fino a divorarlo forse. Consumando la moltitudine di stimoli e artisti nella solitudine dell’ispirazione creativa, per ricostruire il proprio linguaggio. E la coscienza del suo pubblico. Il “tipo” diventa dunque archetipo e le tele si fanno ring di combattimenti, tra epoche e sensibilità, che già si annunciano senza vincitori- nuovi linguaggi tornano sui passi di antiche metafore per prenderne mosse e distanze. Inizia così quella profanazione del prima che diventa in realtà omaggio al presente e piedistallo di un futuro in boccio.
In un contesto di sotterranea – e dirompente – rivoluzione, che sarà poi pop-esplosione, Alessandro Calizza avvia la sua ricerca dalla natura morta, come genere epocale e al contempo trasversale. La riflessione non è sulla vanitas, né sulla conquista di un’apparenza ostentata fino a farsi essenza, no. La riflessione è sui canoni di un’estetica riconosciuta che, proprio in quanto tale, deve essere sconfessata.
Il “dato” non è radice ma terra che germogliare un nuovo che, pur alimentandosi del contatto, può liberarsi di ogni sua influenza. La Natura marcisce perché il tempo l’ha consumata, fino a fare polvere della sua modernità. Il tarlo che rode è quello dell’ispirazione come dono che impone la scelta di essere chi mangia o chi è mangiato, comunque sempre in vizioso circolo costretto. E l’animale-mostro che occupa lo spazio è lombrico che si rigenera, più umile e infestante Fenice, ma anche serpente che confonde. E di nuovo, spettro dell’informe sulle forme vittorioso. Così la classicità laica, e prima ancora pagana, si confronta con quella religiosa, versando il sangue di entrambe. È nella ferita del confronto che il contemporaneo emerge con la forza del suo accettarsi e proclamarsi visionario.
Nel solido contesto di colonne spezzate e ceste di frutta putrescenti, dove la pietra si fa monumento di cenere, i “viventi” dell’artista si alimentano dell’infinito potenziale di uno spazio apparentemente vuoto che si rivela in realtà concretamente pieno in un illimitato multi-verso. Il mondo, per come lo conosciamo, è morto – ed ogni tela sia la sua lapide – per il semplice fatto che la vera rivolta è nel contestare la sua unicità di visione, percezione, proiezione. In quest’apocalisse di surreali forme, l’arte versa il sangue dei suoi colori cercando una nuova densità. Anche di intenti.
La conversione qui è nel titolo che evidenzia la “carne fresca” come contrasto alla carne morta che ritrae, invitando il visitatore a superare la superficialità dello sguardo per andare al di là. O meglio, nell’aldilà dell’artista. Il riflettore non è puntato sulla decadenza in corso, quello, sembra dire Calizza, è il teatro dato per assunto in una metamorfosi che uccide il bruco per consentire alla farfalla di volare. Le ombre crudeli dell’oggi saranno i padroni di domani. “Non resta molto tempo!”, avvertono le opere. Solo quello di una nuova eternità da costruire.